lunedì 23 settembre 2013

Giorno 7 (09/07/2013). Gita al faro

La colazione che ci servono i nostri ospiti, Peter e Wendy, rimetterebbe al mondo un morto. Joel propende per la classica full Scottish, io approfitto per fare incetta di salmone affumicato.
Poi inizia il viaggio su Skye, con un certo timore riguardo all’alloggio. Persino Peter si dice incerto sulla possibilità di trovarvi una camera, o di averla nelle vicinanze del ponte, recente opera di grande utilità e discreta bellezza che con il suo arco di circonferenza promette migliore connessione tra le due isole. Però è dai giochi di Luss che tutti ci ammoniscono in tal modo, e fin’ora abbiamo sempre trovato posto senza difficoltà alcuna.

Dunvegan con la bassa marea. Pensa che artriti, viverci
 (magari nel Settecento).
Fino allo svincolo per Dunvegan tutto procede bene, le strade sono piene di B&B e le corsie discrete; poi il gioco si fa un po’ più duro, gli alberghi più radi e su tutti campeggia il segnale No Vacancies, ma è ancora presto e bisogna concentrarsi sulla rotta, ardua, verso il castello. Massiccio, non bello ma fiero, ricoperto di uno strano bitume marrone probabilmente necessario a non farlo disgregare dalle alghe, dal vento e dal sale, Dunvegan Castle si erge sulla sua rocca e sembra emergere dalle brume di un passato violento in cui la natura non faceva sconti e i clan nemici non prendevano prigionieri.  Decidiamo di non visitare gli interni, che in questi palazzotti medievali sono spesso deludenti, e ci attardiamo per i giardini, che sono due, inseriti in una semiluna boscosa che occupa il fondo del fiordo su cui la rocca si affaccia.
Il primo è una raccolta di specie più e meno rare di fiori, aggregati in insiemi finto-casual con piante che nascono le une abbarbicate alle altre, cosicché margheritine gialle sbucano in mezzo a mazzi di protettive digitali purpuree. Fiore miticamente letterario per ogni italiano che si rispetti, e amico –pericoloso- di ogni medico, qui è una delle specie spontanee di più facile reperimento, lo si vede occhieggiare nei fazzoletti di terra prospicienti le villette e nei fossi delle strade, rigoglioso e fucsia senza false modestie, pieno di salute nella rugiada mattutina. A fare un po’ d’ombra –ma non troppa, ché non è poi così necessaria- qualche albero da guinnes dei primati, come un’enorme tuia tonda che sembra una siepe di più alberi, mentre è solo una, e una specie di conifera semigrassa proveniente dal Cile che mi fa pensare ad una buffa scimmia. Ha qualcosa di vagamente antropomorfo, ciò che in una pianta può essere inquietante. L’altro giardino, il walled garden, ha per l’appunto un muro di cinta che lo ripara dal vento, come il Giardino Segreto di Burnett: era il giardino della Signora, che non ci incontrava gli amanti (in questa landa desolata…) ma si dedicava ad un passatempo assai chic fra le dame della sua epoca: coltivava l’orto. Adesso torna di moda… Comunque la Lady curava patate Charlotte, pisellini e persino tenere insalate, qui difficilissime da moltiplicare, anche con l’ausilio del frangivento in muratura, che in effetti innalza la temperatura in modo sensibile, e riusciva ad offrire cene decorose agli intrepidi amici che venivano a farle visita fino a quest’angolo remoto. Dietro l’orto c’è un piccolo imbarcadero da cui si parte per vedere le foche. Saliamo in sette, marinaio compreso, sulla barchetta a motore che arriva velocemente ad un minuscolo atollo con tre foche stese al sole. Sono vicinissime, ci osservano con un’aria un po’ annoiata e distaccata: sono anche un po’ curiose, come se guardassero i turisti come bestie da esposizione. Penso: “accidenti, le abbiamo già viste: adesso ci riportano indietro”, ma nemmeno per sogno! Più in là la baia è piena di scogli ricoperti di spessi strati di alghe e, stese su questi scivolosi materassi, centinaia di foche tutte intente a recuperare il minimo raggio di sole, in una posizione da yoga apparentemente poco riposante: con manine e piedini giunti, formano una specie di banana, appoggiandosi su un fianco e tirando su testa e coda. In questo luogo il fondale è troppo basso per le orche assassine che cacciano le foche, e gli umani qui sono rispettosi, rendendo Dunvegan un luogo ideale per la riproduzione. I piccoli che emettono urletti rauchi non hanno più di 4-5 giorni. Fra nemmeno due settimane le cure parentali volgeranno al termine e dovranno cavarsela da soli, cacciando in mare aperto. Dove ci sono anche le orche.

Allattamento... goditela finché dura, baby seal!
Mentre mi sento male per loro, vediamo un piccolo che allatta! Che scena incredibile…
Pomeriggio a Nest Point, il punto più a Ovest di Skye. La strada per arrivarci è francamente terribile e da sola non l’avrei MAI fatta. Il panorama diventa sempre più estremo, mentre le brume si sollevano e, un passing point dopo l’altro, andiamo verso la fine del mondo.


Aperto e spoglio, Nest Point costringe a farsi l’ultimo miglio di scogliera a piedi, su un sentiero lastricato che conduce al faro. Adesso che mi ricordo, avevo anche cercato il modo di dormirci, qui dentro, poiché è possibile affittare delle camere. Per fortuna era già occupato, e ora mi rendo conto di quanto scomoda e inquietante sarebbe stata la sistemazione: nonostante il sole caldo c’è un venticello perfido e siamo lontani da tutto. Alle tre del pomeriggio il posto è “piacevolmente” disturbante, comunica un senso di vertigine e mistero, sembra il porto delle navi degli elfi; di notte credo mi avrebbe fatto paura, quando al calar del sole saremmo rimasti soli insieme ai fantasmi di qualche vecchio lupo di mare. 
il faro di Nest Point
Vero l'infinito, e oltre!
 Più che a Tolkien, penso a Quelle Oscure Materie: le falesie lisce e proditorie sarebbero un setting perfetto per il desiderio violento di materia che sprigiona da quelle pagine, e penso che vorrei vedere anche l’Islanda.
Mentre ci perdiamo nella bellezza straniante la situazione alberghiera si fa complicata e alle sette di sera non abbiamo una camera (qui la gente ha già cenato…), mentre incrociamo B&B tutti pieni. Colti da disperazione, telefoniamo a Peter e Wendy che, pur al completo, ci infilano in una stanza vuota sul retro: niente vista fiordo, ma tetto sulla testa. 

Un road trip è sempre un buon momento per incontrare i tuoi angeli custodi, e quando arriviamo ci fanno trovare la tavola già imbandita con zuppa di pomodoro e basilico (buona che sembra fatta in Calabria), capesante al forno e selezione di formaggi locali. La birra non è buona neppure qui, e Joel cerca di condividere l’esterofilia degli autoctoni assaggiando uno Shiraz del Cile dimenticabilissimo. Però qui tengono all’esotismo, la carta dei vini ha un esemplare per ogni paese che mette su una vigna, è importante favorire la diversità e assicurarsi contatti con ogni dove. Insomma, il vino lascia a desiderare, ma l’approccio è ottimo!

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