La
colazione che ci servono i nostri ospiti, Peter e Wendy, rimetterebbe al mondo
un morto. Joel propende per la classica full Scottish, io approfitto per fare
incetta di salmone affumicato.
Poi
inizia il viaggio su Skye, con un certo timore riguardo all’alloggio. Persino
Peter si dice incerto sulla possibilità di trovarvi una camera, o di averla
nelle vicinanze del ponte, recente opera di grande utilità e discreta bellezza
che con il suo arco di circonferenza promette migliore connessione tra le due
isole. Però è dai giochi di Luss che tutti ci ammoniscono in tal modo, e
fin’ora abbiamo sempre trovato posto senza difficoltà alcuna.
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Dunvegan con la bassa marea. Pensa che artriti, viverci (magari nel Settecento). |
Fino
allo svincolo per Dunvegan tutto procede bene, le strade sono piene di B&B
e le corsie discrete; poi il gioco si fa un po’ più duro, gli alberghi più radi
e su tutti campeggia il segnale No Vacancies, ma è ancora presto e bisogna
concentrarsi sulla rotta, ardua, verso il castello. Massiccio, non bello ma
fiero, ricoperto di uno strano bitume marrone probabilmente necessario a non
farlo disgregare dalle alghe, dal vento e dal sale, Dunvegan Castle si erge
sulla sua rocca e sembra emergere dalle brume di un passato violento in cui la
natura non faceva sconti e i clan nemici non prendevano prigionieri. Decidiamo
di non visitare gli interni, che in questi palazzotti medievali sono spesso
deludenti, e ci attardiamo per i giardini, che sono due, inseriti in una
semiluna boscosa che occupa il fondo del fiordo su cui la rocca si
affaccia.
Il
primo è una raccolta di specie più e meno rare di fiori, aggregati in insiemi
finto-casual con piante che nascono le une abbarbicate alle altre, cosicché
margheritine gialle sbucano in mezzo a mazzi di protettive digitali purpuree.
Fiore miticamente letterario per ogni italiano che si rispetti, e amico
–pericoloso- di ogni medico, qui è una delle specie spontanee di più facile
reperimento, lo si vede occhieggiare nei fazzoletti di terra prospicienti le
villette e nei fossi delle strade, rigoglioso e fucsia senza false modestie,
pieno di salute nella rugiada mattutina. A fare un po’ d’ombra –ma non troppa,
ché non è poi così necessaria- qualche albero da guinnes dei primati, come
un’enorme tuia tonda che sembra una siepe di più alberi, mentre è solo una, e
una specie di conifera semigrassa proveniente dal Cile che mi fa pensare ad una
buffa scimmia. Ha qualcosa di vagamente antropomorfo, ciò che in una pianta può
essere inquietante. L’altro giardino, il walled garden, ha per l’appunto un
muro di cinta che lo ripara dal vento, come il Giardino Segreto di Burnett: era
il giardino della Signora, che non ci incontrava gli amanti (in questa landa
desolata…) ma si dedicava ad un passatempo assai chic fra le dame della sua
epoca: coltivava l’orto. Adesso torna di moda… Comunque la Lady curava patate
Charlotte, pisellini e persino tenere insalate, qui difficilissime da
moltiplicare, anche con l’ausilio del frangivento in muratura, che in effetti
innalza la temperatura in modo sensibile, e riusciva ad offrire cene decorose
agli intrepidi amici che venivano a farle visita fino a quest’angolo remoto.
Dietro l’orto c’è un piccolo imbarcadero da cui si parte per vedere le foche. Saliamo
in sette, marinaio compreso, sulla barchetta a motore che arriva velocemente ad
un minuscolo atollo con tre foche stese al sole. Sono vicinissime, ci osservano
con un’aria un po’ annoiata e distaccata: sono anche un po’ curiose, come se
guardassero i turisti come bestie da esposizione. Penso: “accidenti, le abbiamo
già viste: adesso ci riportano indietro”, ma nemmeno per sogno! Più in là la
baia è piena di scogli ricoperti di spessi strati di alghe e, stese su questi
scivolosi materassi, centinaia di foche tutte intente a recuperare il minimo
raggio di sole, in una posizione da yoga apparentemente poco riposante: con
manine e piedini giunti, formano una specie di banana, appoggiandosi su un
fianco e tirando su testa e coda. In questo luogo il fondale è troppo basso per
le orche assassine che cacciano le foche, e gli umani qui sono rispettosi,
rendendo Dunvegan un luogo ideale per la riproduzione. I piccoli che emettono
urletti rauchi non hanno più di 4-5 giorni. Fra nemmeno due settimane le cure
parentali volgeranno al termine e dovranno cavarsela da soli, cacciando in mare
aperto. Dove ci sono anche le orche.
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Allattamento... goditela finché dura, baby seal! |
Mentre
mi sento male per loro, vediamo un piccolo che allatta! Che scena incredibile…
Pomeriggio
a Nest Point, il punto più a Ovest di Skye. La strada per arrivarci è
francamente terribile e da sola non l’avrei MAI fatta. Il panorama diventa
sempre più estremo, mentre le brume si sollevano e, un passing point dopo
l’altro, andiamo verso la fine del mondo.
Aperto
e spoglio, Nest Point costringe a farsi l’ultimo miglio di scogliera a piedi,
su un sentiero lastricato che conduce al faro. Adesso che mi ricordo, avevo
anche cercato il modo di dormirci, qui dentro, poiché è possibile affittare
delle camere. Per fortuna era già occupato, e ora mi rendo conto di quanto
scomoda e inquietante sarebbe stata la sistemazione: nonostante il sole caldo
c’è un venticello perfido e siamo lontani da tutto. Alle tre del pomeriggio il
posto è “piacevolmente” disturbante, comunica un senso di vertigine e mistero,
sembra il porto delle navi degli elfi; di notte credo mi avrebbe fatto paura,
quando al calar del sole saremmo rimasti soli insieme ai fantasmi di qualche
vecchio lupo di mare.
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il faro di Nest Point |
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Vero l'infinito, e oltre! |
Più che a Tolkien, penso a Quelle Oscure Materie: le
falesie lisce e proditorie sarebbero un setting perfetto per il desiderio
violento di materia che sprigiona da quelle pagine, e penso che vorrei vedere
anche l’Islanda.
Mentre
ci perdiamo nella bellezza straniante la situazione alberghiera si fa
complicata e alle sette di sera non abbiamo una camera (qui la gente ha già
cenato…), mentre incrociamo B&B tutti pieni. Colti da disperazione,
telefoniamo a Peter e Wendy che, pur al completo,
ci infilano in una stanza vuota sul retro: niente vista fiordo, ma tetto sulla
testa.
Un road trip è sempre un buon momento per incontrare i tuoi angeli
custodi, e quando arriviamo ci fanno trovare la tavola già imbandita con zuppa
di pomodoro e basilico (buona che sembra fatta in Calabria), capesante al forno
e selezione di formaggi locali. La birra non è buona neppure qui, e Joel cerca
di condividere l’esterofilia degli autoctoni assaggiando uno Shiraz del Cile
dimenticabilissimo. Però qui tengono all’esotismo, la carta dei vini ha un
esemplare per ogni paese che mette su una vigna, è importante favorire la
diversità e assicurarsi contatti con ogni dove. Insomma, il vino lascia a
desiderare, ma l’approccio è ottimo!